Rilanciare l’azienda di famiglia puntando sul web e sulla ripresa di un settore come quello della pelletteria. Il tutto in un territorio non certo facile per gli imprenditori. Ancor più se si parla di una donna. È questa in sintesi la storia di Ornella Auzino, imprenditrice napoletana, che oggi gestisce un’azienda di pelletteria a Casoria, in Campania, un incubatore di startup, cura un blog ed è autrice di un libro, “Le mie borse”, in cui spiega «come valorizzare Napoli quando tutti ti dicono di andare via». Tuttavia, ci racconta in un’intervista, «nonostante nasca da “una famiglia d’arte”, non avrei voluto fare questo lavoro».
Anche se, aggiunge, «dico sempre che la fabbrica non ti abbandona mai». Così in un periodo di cambiamento del mercato e di alcune difficoltà familiari nella gestione della società, decide di dedicarsi a tempo pieno all’azienda. «Inizialmente è stato abbastanza complesso. Perché il contesto in cui mi trovavo ad operare era completamente diverso rispetto a quello che può esserci nell’immaginario collettivo. Ossia quello di riuscire ad avere successo semplicemente perché so fare bene il mio lavoro».
Quali difficoltà ha dovuto affrontare?
«Il primo tentativo in questo tipo di attività avviene nel 2007. Poi mi sono allontanata per un periodo. Dopo la nascita di mia figlia, decido di ritornare e ho iniziato a riscontrare tutta una serie di problemi dettati da fattori culturali. Perché c’erano diffidenze verso una donna e andare a trattare per i lavori significava avere a che fare spesso con titolari uomini, in un contesto molto clientelare. In più c’erano anche tutta una serie di difficoltà. Come i lavori sottopagati che sono uno dei problemi del sud in generale, della Campania e della pelletteria. Molto spesso, poi, bisognava accettare pagamenti dilazionati, poca programmazione di lavoro e altre difficoltà. L’anno peggiore è stato il 2013 quando tutta una serie di episodi negativi mi ha portato a pensare a come si stava muovendo il mercato».
Come ha deciso di reagire?
«Ho cominciato a usare molto di più l’online. Così mi sono accorta della quasi totale assenza di quanto riguarda il lavoro dei terzisti su Internet. Come i siti che vendono manodopera, o servizi come lo sviluppo e la produzione di borse, che poi è il mio lavoro».
Che vantaggi ha avuto dal web?
«Ho cominciato a contattare tramite LinkedIn tutti i vari referenti delle aziende, i responsabili degli uffici vendite delle società e così ho trovato delle persone che mi hanno dato fiducia. Un’azienda in particolare, con cui ho un rapporto lavorativo da quasi 7 anni che è Gucci. Così abbiamo iniziato prima a fare piccole produzioni e da lì abbiamo sviluppato tutta quella che è l’azienda che c’è adesso, Rica. Poi, tramite “Le mie borse srls” gestisco i lavori con le startup e il resto delle mie attività. Purtroppo, in un periodo di forte espansione è arrivato il Covid che ha devastato tutto».
Qual è stato l’impatto della pandemia sul settore?
«Ci siamo trovati a fine 2019 con le aziende che investivano molto. Poi, alcune di queste hanno iniziato a dare segnali di problemi. Qualcuna già da dicembre 2019 aveva capito che c’erano difficoltà. Questo perché si tratta di società che hanno negozi in tutto il mondo. L’impatto del Covid è stato potente. Il nostro settore, completamente invisibile perché nessuno ci considera valore aggiunto come sistema produttivo, ha subito tantissimo. Inizialmente, infatti, non siamo stati inseriti nei codici Ateco per le chiusure. Non si capiva se potevano lavorare o meno. Insomma, è stato abbastanza complicato».
Eravate in un limbo.
«Sì, un limbo dettato un po’ da alcune associazioni, dalle frammentazioni del settore. Basti pensare che Confindustria ha la sezione moda, Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa, ndr) ha la sezione moda, ecc… Tutta una serie di associazioni senza una voce comune. Poi bisogna considerare le tante anime che lavorano all’interno della pelletteria. Dai brand, ai terzisti, alle modellerie… Tutto questo ha generato confusione. Attualmente, moltissimi gruppi hanno perso il lavoro fra luglio e settembre e hanno cominciato a chiudere. Improvvisamente ci siamo ritrovati da un mercato esponenziale a un mercato completamente contratto. Senza consapevolezza di quello che succederà perché, inevitabilmente, tutte le situazioni politiche mondiali influiscono su quelli che sono gli ordini dei brand».
La sua azienda che conseguenze ha avuto?
«Dal punto di vista del cliente più grosso il calo c’è stato. Parliamo di almeno un 40 per cento che ci portiamo dietro da gennaio. A marzo abbiamo avuto la stoccata dei due mesi di lockdown. Poi ad agosto ci siamo fermati nuovamente per via del ritiro di molti ordini. A settembre abbiamo ricominciato a lavorare e abbiamo fatto un po’ di cassa integrazione. Dall’altro lato, però, poiché sono molto presente online sono riuscita comunque a reperire alcuni lavori».
Quindi Internet è stato d’aiuto.
«Quello di cui mi sono subito accorta è che ci sono tantissime richieste di brand, più o meno piccoli, di produrre. C’è difficoltà di movimento e aziende più piccole hanno difficoltà a usare i service esteri. Così molti fanno ritorno in patria e stanno cercando di produrre qua. Ovviamente ho avuto contatti anche con aziende più strutturate che hanno i monomarca. Però capita che, alcuni, che hanno prodotto sempre in Cina vogliono venire in Italia agli stessi prezzi. E questo non è possibile per molti motivi. A partire dai costi: una borsa a 7 euro che ne costa 40 non si può fare. Bisognerebbe defiscalizzare dei territori altamente produttivi per incontrare domanda e offerta. È una cosa abbastanza banale da dire, ma renderebbe efficace tutto questo lavoro che comunque esiste. Non si potrà arrivare ai 7 euro, ma si creerà comunque un sostentamento per aziende che altrimenti sarebbero in grande difficoltà.
Inoltre, uno dei problemi maggiori per chi lavora in Campania è dato dalla reputazione del territorio. Ossia di essere sempre additata per la contraffazione, il lavoro in nero o la criminalità. E questo ha delle conseguenze. Chi andrebbe tranquillamente a fare investimenti in un posto che ti dicono sia una sorta di far west?
Per cui sì, il web mi ha aiutata tantissimo. Perché le persone possono trovarmi un po’ su tutti i social, vedere i miei video e conoscere la mia attività. Poi con le persone ci si parla e nel primo approccio supero la diffidenza su certi argomenti.
Ci sono altri vantaggi?
Nel mio campo quello che sto cercando di portare avanti è un discorso su tutto il contesto. Bisogna parlare della pelletteria e di quanto lavoro dà. È fondamentale soprattutto per le piccole realtà che non hanno ancora un sito e non hanno la percezione di quanto sia potente arrivare direttamente a un brand. Ovviamente, mi riferisco a piccole aziende perché non basta solo essere online per avere lavori dai grandi marchi. Magari, però, si può creare un contatto. Si crea una rete di persone, ti conoscono e si comincia un dialogo. Allo stesso tempo, ci sono brand minori che permettono di riempire buchi produttivi. Bisognerebbe ripensare tutto il sistema. Purtroppo in Italia non esiste una rete unica di persone a cui fare riferimento».
Dopo il Covid, come si può rilanciare il settore della pelletteria?
«Secondo me bisognerebbe mettere in chiaro tutta la filiera e capire chi fa cosa. Per un brand sarà normale far sapere di produrre in Italia, perché è un valore aggiunto. Poi, ammesso che entro un anno torneremo a “vedere la luce”, bisognerà capire quante aziende rimarranno fra un anno. Fra eventuali lockdown locali, problematiche legate al lavoro e tutta una serie di incertezze legislative.
Diciamo che il futuro è fatto più di piccole attività che riescono anche a gestire lavori con numeri inferiori rispetto a quelli di qualche anno fa. Sicuramente una cosa fondamentale da supportare sarebbe quella di riavere i terzisti con tutte le fasi di lavorazione interne. Quando si inizia a lavorare con un brand si perdono molte capacità, perché alle aziende è fornito il lavoro già tagliato, o con delle preparazioni già effettuate, togliendo così tutta una serie di fasi di lavoro. Col passare degli anni questo ha creato dei terzisti che sanno fare solo l’assemblaggio, o la tintura ecc…»
Come si può ovviare a queste problematiche?
«Una soluzione sarebbe quella di aiutarsi e fare rete. Qui, però, si vive di invidia sociale. Ci vorrebbe un consorzio magari non dal punto di vista formale, ma umano. Cercando di condividere le competenze. Quando si propongono queste idee, tuttavia, le persone vanno in difficoltà, come se qualcuno volesse rubargli il lavoro. C’è una mancanza di fiducia che poi si riversa su problemi professionali non indifferenti. Senza competenze complete e un’adeguata presenza sul web, sarà difficile affacciarsi a un mercato post Covid. Molti non si muoveranno e vorranno gestire tutto online. Purtroppo, però, molte società non hanno neanche i social».
Si tratta di un’arretratezza propria del sud?
«Questo è un problema principalmente di queste parti. Esiste anche al nord, ma è un altro contesto. Quando si parla di “Pelletteria toscana” si intende un brand. Che a Napoli e in tutta la Campania non esiste. E andando più a sud si uniscono i problemi infrastrutturali e le difficoltà a raggiungere i territori. In Campania per fortuna c’è l’alta velocità, ma in regioni come la Basilicata o la Sicilia come ci si arriva? Questo comporta che tanti giovani studiano, partono e vanno al nord dove ci sono le industrie che li assimilano. Qui, invece, non si riescono a sviluppare tutte le infrastrutture e quello che serve per lavorare bene. Il sud paga anni di arretratezza strutturale. Ed è paradossale che a Napoli e in tutto il sud non ci sia una scuola di pelletteria».
Eppure si parla spesso dell’eccellenza napoletana, dalla sartoria all’artigianato.
«Nonostante questo c’è chi, ad esempio, non sa che a Napoli si producono borse. Ho parlato sui social con chi non sapeva dell’esistenza di fabbriche a Napoli che producono per gr anni firme dell’alta moda. Se culturalmente un brand non si sente di promuovere un territorio, come può poi un artigiano pensare che possa essere un vantaggio competitivo esporsi? Questo crea un enorme svantaggio. Senza queste informazioni, si perdono degli investimenti e non si creeranno così le condizioni per sviluppare un settore. Come il cane che si morde la coda. L’idea di utilizzare i social per far emergere certe realtà è un’idea fondamentale».
Esiste anche il problema della contraffazione.
«La contraffazione è considerata quasi come un ammortizzatore sociale. Se non si riesce a trovare un lavoro con le firme o comunque un lavoro legale, c’è un parasistema che dà la possibilità di lavorare.
La degenerazione è avvenuta negli anni, quando i terzisti per rendersi più appetibili hanno iniziato ad abbassare i livelli di manodopera e hanno iniziato a fare quella pratica che si chiama overrunning o mercato parallelo. Ossia, produrre per un certo brand, fare una borsa uguale e venderla sottobanco. Quella è contraffazione. Si tratta di appropriazione indebita, non si può fare per via del marchio perché questo è il concessionario di tutto quello che c’è intorno al brand. Poi quella borsa viene venduta a 500 euro, quando al negozio costa 2500. Quei 500 euro sono soldi tolti a un brand italiano legale, a un artigiano che magari può alzare il livello di manodopera. Perché chi fa queste furbate abbassa il livello di manodopera».
Questo modo di fare che danni ha creato?
I brand non hanno mai preso posizione contro la contraffazione, perché fondamentalmente hanno sempre visto chi acquista prodotti contraffatti come una persona che non rientra nel loro target. Purtroppo, la borsa di un artigiano a 500 euro non piace, quella con il marchio falso sì. Questo nel tempo è degenerato. Soprattutto con i social. Ci sono siti, anche altamente indicizzati, che rivendono borse false. Un tempo acquistare prodotti falsi era visto come qualcosa da “poverelli”, ora chi lo fa si sente più intelligente degli altri. Purtroppo, ogni borsa contraffatta venduta alimenta la chiusura di chi realizza per i marchi originali. Ma i brand che non si sentono minacciati, non fanno fronte comune contro la contraffazione. Lo stesso non è accaduto per la contraffazione di prodotti come Sky o Netflix. Ora però sembra che qualcuno si stia accorgendo della situazione. Io compro e recensisco prodotti originali per far capire quanto lavoro e quanta gente c’è dietro».
Quanto è importante puntare sul made in Italy e come si può rilanciarlo?
«Intanto bisogna riformulare cos’è il made in Italy. Vivendo nell’Ue si è persa un po’ anche l’identità. Esistono brand europei che fanno i semilavorati all’estero, li riportano in Italia e con due fasi di lavorazione possono usare la dicitura made in Italy. Bisognerebbe cercare di riformulare il concetto e legarlo molto di più alla lavorazione manuale in Italia oltre che alle fasi. Poi si deve creare la certificazione di filiera. Un po’ si sta facendo con la blockchain, un po’ si deve mettere in chiaro cos’è made in Italy. È necessariamente ingegno, manifattura, capacità di saper fare, materiali. Ed è vero che si tratta di un valore aggiunto molto percepito all’estero, ma rischiamo di perdere il senso. Se non gliene diamo uno forte si finisce a pensare che il made in Italy si può fare anche in Francia assumendo 10 artigiani italiani.
Bisogna riequilibrare tutto questo e raccontarlo su siti istituzionali. Così un brand o un cliente estero che vuole sapere quali aziende in Italia ci sono per produrre scarpe, borse o altro, può farlo. Una sorta di Camera di Commercio accessibile al pubblico».
Come funziona il progetto che riguarda le startup?
Voglio impedire che altri con la mia stessa passione abbiano le mie stesse difficoltà. Il mio sogno è che piccole realtà riescano a crescere e a prendere sempre più lavori. E che piccoli designer riescano a valorizzarsi attraverso il lavoro dell’artigiano. Quello che cerco di fare con Le mie borse srls è parlare con i designer e fargli capire che anche se il loro progetto è valido, dal punto di vista del design, c’è bisogno di raccontare una storia e di vendere i prodotti. Cerco di dare anche un supporto attraverso la mia esperienza online e di supportare a 360 gradi. Così mi è capitato di evitare che qualcuno perdesse soldi. Perché c’è chi si approfitta. Molte volte guardando dei progetti ho consigliato di aspettare perché non era il momento di partire con quel prodotto. E ci sono stati scambi in maniera gratuita. All’inizio aiuto sempre le persone a capire a che punto del progetto sono. E poi, da quel punto di vista, si cerca di articolarlo su più piani. Perché lo sviluppo del prodotto è importante e anche abbastanza oneroso. Il supporto delle startup avviene così. Dando dei feedback per evitare degli errori, o cercando di dare suggerimenti e consigli anche se con queste persone non ci lavori insieme. A volte anche solo parlando, perché molto spesso queste persone non ricevono mai risposta. Bisogna tornare a vedere la pelletteria non più solo come un’opportunità di business, ma anche un modo di incentivare le nuove generazioni ad affascinarsi a questo lavoro. E se prima chi lo fa non è innamorato della sua occupazione, questo diventa difficile».
Oltre all’incubatore esistono anche un libro e un blog.
«Sul blog racconto le storie dei brand che compro. Anche se io non mi sento una influencer. Però ho il mio piccolo seguito. C’è chi compra le borse perché sono io a suggerirle e mi sono resa conto che, mi riferisco ai piccoli brand, in un mondo così saturo bisogna cercare di non pagare le persone per indossare le cose. Un conto è se lo fa Gucci, un conto un’azienda piccola, perché non viene percepita più importante dell’influencer. Ho cominciato a comprare i prodotti per avere la libertà di esprimermi e dall’altro lato di poterlo sostenere. Se io dico che un brand vale e non voglio acquistare quello che produce, non ha senso che lo promuova».
Quindi puntare sull’online, ma non sulle influencer?
«Ormai anche il settore delle influencer è diventato inflazionato. Bastano un paio di video e si ricevono dei prodotti. I brand piccoli, però, tendono ad avere poca disponibilità perché non possono permettersi di pagare certe cifre per un post che poi non porta un certo risultato nelle vendite.
Sarebbe meglio puntare sull’originalità della testimonianza. È preferibile un video di 10 secondi o un post di una cliente reale che quello di qualcuno a cui è stato regalato un prodotto. Questa strategia di marketing va seguita solo se si è abbastanza in alto come brand».
Riassumendo: un’azienda, un’incubatore di startup, un blog, un libro…
«Faccio anche la mamma… (ride)»
… e ora? Cosa vuole fare da grande?
«Voglio fare le borse per altri. Tutte le volte che mi chiedono se voglio creare un brand rispondo che l’ho pensato. È una cosa che mi piace e non lo escludo in futuro, ma se devo sognare allora voglio produrre per più marchi possibili e vedere l’innovazione, la voglia di fare verso questo lavoro e raccontare la sua bellezza. E poi sogno una scuola di pelletteria. Vorrei che Napoli ridiventi patria della manifattura. Quindi un Hub formativo per le nuove leve, per innamorarsi di questo mestiere e professionalizzare un lavoro che è stato ghettizzato da un’errata concezione imprenditoriale del settore».
Articolo aggiornato in data 15 Giugno 2022
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